"Può la chiusura di un piccolo forno in Aspromonte rappresentare una perdita per la comunità?": la riflessione di Slowfood

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images "Può la chiusura di un piccolo forno in Aspromonte rappresentare una perdita per la comunità?": la riflessione di Slowfood

  08 giugno 2022 12:41

Per comprendere la questione bisogna arrivare a Varapodio, duemila abitanti ai piedi dell’Aspromonte, centro fondato probabilmente nel 951 su un’altura da cui si organizzava la difesa della Piana di Gioia Tauro dalle incursioni saracene. Gente laboriosa, concreta, che nei secoli ha saputo curare e mettere a frutto un territorio ricco di boschi, uliveti ed agrumeti.

Maria Rosa Longo e Giuseppe Pellegrino nascono con questa tempra: lei di famiglia contadina; lui impara a maneggiare grano e farine ancora prima di camminare, nel panificio avviato dalla bisnonna, lo storico Forno Pellegrino di Varapodio. I ragazzi crescono nella stessa dimensione e con gli stessi valori, si sposano nel 1998 e Maria Rosa inizia presto ad innestare la sua vivacità e creatività nella gestione del forno ormai ereditato dal marito Giuseppe. La data di fondazione riporta al 1920, ma si panificava ancora prima nella piccola attività di Maria Barbaro, la mamma di Nino Pellegrino, il papà di Giuseppe morto ad appena cinquant’anni, conosciuto da tutti come “Ninu du furnu”. Nino che, dopo la sveglia nella notte e le ore passate ad impastare ed infornare, la mattina caricava la sua Bianchina di pane fragrante e lo distribuiva nelle botteghe della zona. Ancora sono in tanti a ricordare il profumo del grande pane da due chili ed il gusto inimitabile delle pagnotte, un misto tra pane e pizza difficile da definire, rimasto nei ricordi di chi l’ha assaggiato. Con la prematura scomparsa del marito, è la mamma di Giuseppe e vedova di Nino a rilevare la licenza e a darsi da fare per crescere i suoi due figli ancora ragazzini. Si ritira solo quando Giuseppe, che ha sempre lavorato con la mamma e la zia, si sposa con Maria Rosa e prende le redini del Forno Pellegrino.

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La produzione tradizionale era fatta di ottimo pane, pane duro e pizza. Rosetta trasferisce nel forno la sua passione per la cucina, le ricette imparate a casa e quelle apprese dalle tante riviste ed enciclopedie che ha sempre acquistato. E’ una giovane curiosa, dinamica, di famiglia semplice e tradizionale, ma che non si è mai fatta imbrigliare dalla vita e dalla mentalità di paese. Continua a studiare anche dopo il matrimonio, riuscendo a laurearsi in Economia pur con due bimbi piccoli e  il duro lavoro con Giuseppe nel forno. E’ lei ad insistere per avviare la produzione di dolci e allargare quella di prodotti salati, sfruttando ogni bontà e risorsa delle loro campagne. Dagli orti di famiglia arrivano le erbe aromatiche, la frutta per le marmellate, per le crostate, i cornetti, i canestrini traboccanti di crema, fragole, pesche, albicocche. Zucchine, melanzane, asparagi, peperoni e ogni altro tipo di verdura vanno ad arricchire pizze, calzoni, focacce. Una delizia per il palato e per gli occhi! Contemporaneamente, Giuseppe e Rosetta si muovono per l’Italia frequentando corsi di formazione, fanno lezione con i grandi maestri della panificazione e della pasticceria, affinano le idee e prendono sempre maggiore consapevolezza del loro ruolo non solo di artigiani del pane, ma anche di promotori del territorio e difensori della biodiversità. Decisivo è l’incontro, nel 2018, con Davide Longoni, importante riferimento della panificazione contemporanea e cofondatore del movimento Pau, i Panificatori agricoli urbani. Giuseppe e Rosetta si ritrovano appieno in quella filosofia: fare pane non è un semplice miscelare acqua, lievito e farina, ma esprimere in quell’impasto il meglio della propria terra, un vero e proprio atto agricolo. Valori racchiusi nei dieci punti del Manifesto dei Pau in cui si parla dei panificatori come dei paesaggisti che, attraverso le loro azioni, danno forma e valore all’ambiente che vivono, insieme ai contadini che coltivano i cereali, i mugnai che li trasformano in farine, i consumatori che scelgono quei prodotti. Da questo sentire nasce la ricerca di Giuseppe e Maria Rosa di farine e materie prime locali e la produzione di pani interamente tracciabili, fatti con grani antichi biologici macinati a pietra e pasta madre viva, con lavorazione artigianale e cottura nel forno a legna. Ogni pane viene curato quasi come un bimbo, impastato e messo a lievitare nel suo canestrino per non meno di 36 ore e Giuseppe si muove quasi come in una nursery.

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Faticano e crescono tanto, ma soprattutto cercano di farlo insieme a chi produce nel loro territorio con la stessa attenzione per la genuinità e la sostenibilità. Un piccolissimo esempio è la pastiera a chilometro zero “progettata” con  gli amici di piccole aziende dei comuni vicini utilizzando la ricotta di pecora di Amato, le farine di Delianuova, il miele di Molochio, le scorzette ed i fiori d’arancio dall’agrumeto di famiglia. Non è facile, né scontato fare rete in Calabria. Millenarie vicissitudini, indole atavica e chissà quali altre motivazioni portano a chiudersi, a diffidare, guardare gli altri da lontano e a fare da soli. Rosetta, invece, è solare, vuole imparare, confrontarsi e tentare collaborazioni. Giuseppe è più cauto e tradizionalista, ma si lascia coinvolgere dall’entusiasmo della moglie. Nel 2019 decidono un altro importante investimento: spostare la loro attività nel centro di Varapodio, di fronte la Chiesa di San Nicola. Scelgono il bel palazzo d’inizio Novecento accanto la villa comunale con tanto verde e danno ulteriore valore a quell’angolo di paese col loro delizioso negozietto, straripante di bontà e curato in ogni dettaglio. Per ristrutturare e arredare i locali, mantengono fede all’idea di profonda connessione col territorio: l’architetto progettista è di Varapodio, così come il fabbro, l’elettricista ed il falegname. Le grafiche dei prodotti, le immagini per le magliette ed i gadget li disegna un ragazzo appena diplomato all’Istituto d’arte, a cui danno incoraggiamento e fiducia.

La rete di fornitori dei dintorni si allarga, si organizzano eventi informativi e si progettano campagne di sensibilizzazione per le scuole, corsi di panificazione casalinga ed incontri per divulgare i principi su cui si fonda la stessa esistenza del Forno Pellegrino. A costo di ulteriori sacrifici, arriva anche la certificazione biologica, che permette di  sfornare il primo pane dell’Aspromonte con filiera certificata, prodotto con farina maiorca dell’azienda Perrone di Delianuova molita a pietra, trasformato con lievito madre  e cotto nel forno di Varapodio con legna di ulivo, proveniente dalla potatura degli alberi di famiglia.

Ma, proprio quando bisognava intensificare gli sforzi e la promozione dell’attività, anche per riuscire ad ammortizzare il grosso impegno economico, la pandemia stravolge ogni programma ed imprime un forte freno alla produzione ed alle vendite. I lockdown bloccano le persone a casa, la spesa alimentare si concentra nei supermercati, si fermano le feste di paese, gli eventi che riuniscono le persone. Ciononostante, il Forno Pellegrino prova a resistere con qualche spedizione dei prodotti, con i tavolini all’aperto, le band locali chiamate ad allietare le serate estive, la proposta di nuovi sapori.

I tre figli di Giuseppe e Maria Rosa sono sempre in movimento per aiutare i genitori e curare i clienti. Sono cresciuti nel forno, sanno impastare, fare il pane e la pizza. Antonino studia Fisica a Pisa, ma appena torna rimette il grembiule. A Michele, che sta finendo le superiori, piace parlare con la gente, presentare i prodotti e la qualità che li contraddistingue. Paolo ha dieci anni, ma anche lui sa darsi da fare ed è orgoglioso dell’attività di famiglia. Da un luogo estremamente periferico, i coniugi Pellegrino continuano a fare scelte importanti ed a proporsi come presidio di qualità, tradizione e gusto nella Piana di Gioia Tauro. Un lavoro encomiabile, ma che forse avrebbe avuto bisogno di un contesto maggiormente recettivo ed intraprendente. Maria Rosa e Giuseppe cominciano, forse per la prima volta, a sentirsi soli, intanto i prezzi delle materie prime aumentano, le bollette lievitano più del loro pane, gli incassi bastano appena per pagare il mutuo ed i costi di gestione dell’attività. “Avere tre figli e vedere il vuoto davanti è terribile - racconta Maria Rosa - Tre mesi fa siamo stati costretti a smontare tutto ed  abbassare la serranda del forno, dopo più di cento anni di attività. E’ rimasta una grande tristezza, la piazza del paese vuota, senza colore e senza profumi”.

“Pur soppesando le difficoltà, non avevamo mai pensato di spostarci da Varapodio per trovare condizioni migliori – riprende Maria Rosa – sapevamo che solo restare ci avrebbe permesso di mantenere quello che eravamo, la nostra storia, la nostra identità. La qualità dei nostri prodotti era determinata da tutto quello che mettevamo dentro: le farine biologiche, la frutta, gli ortaggi, gli aromi del nostro orto, le marmellate fatte in casa, la legna dei nostri ulivi ed aranci bruciata nel forno dava al pane un aroma difficile da ottenere in un altro luogo”. Giusto il tempo di capire come muoversi e  mandare avanti la famiglia, che Giuseppe si è ritrovato in viaggio verso Parma per lavorare in un grande forno cittadino, di quelli che impastano e sfornano come una catena di montaggio. “Abituato a lavorare da una vita con tutt’altra impostazione e valori, per lui è stato uno shock – racconta ancora Maria Rosa – io sono rimasta in Calabria con i ragazzi, con la mente che non si fermava un attimo nella ricerca di possibili alternative. Ho provato a cercare fonti di finanziamento, sostegni per l’autoimprenditorialità femminile, nuove idee per ripartire, ma al momento la priorità è  quella di pagare i debiti accumulati e mantenere sereni i nostri figli”.

Negli ultimi giorni, con la chiusura delle scuole ed i ragazzi lasciati alla cura di nonni e parenti, anche Maria Rosa ha preparato la valigia. Ha dapprima raggiunto il marito in Emilia Romagna e poi, insieme, sono partiti verso la Toscana per partecipare alla realizzazione di un grosso progetto di recupero dei grani antichi locali, nel quale si occuperanno della produzione da forno con le farine macinate sul posto. Chi li ha scelti ha sicuramente ben valutato la competenza, l’entusiasmo e l’esperienza della coppia, per entrambi è una bella sfida ed un’ulteriore occasione di crescita, ma per la Calabria si tratta dell’ennesima perdita di professionalità, di un’altra famiglia smembrata, di un altro piccolo paese privato di un servizio essenziale com’è il forno e di un intero territorio che perde energie, sapere, coraggio, bellezza e passione.

Francesca Cugliandro

Slow Food Calabria

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