di VANNI CLODOMIRO
Nel 1938, l’imperatore e il führer sono all’apice del loro successo, e nel marzo del 1939, Hitler, ignorando l’accordo di Monaco (29-30 settembre 1938, in cui i leader di Inghilterra, Francia, Germania e Italia credettero di aver raggiunto un compromesso per una pace duratura), invade la Cecoslovacchia, ma lo fa senza avvisare Mussolini: questo è un punto, in cui si capisce bene chi, dei due, è quello che ha in mano le redini della biga. In agosto, il ministro degli Esteri von Ribbentrop, durante un ricevimento, dice a Ciano che la Germania ha deciso di far guerra alla Polonia, e rassicura, addirittura scommettendo, che Francia e Inghilterra non muoverano un dito.
Questo è un momento fondamentale per capire il rapporto tra i due dittatori. Visto che Hitler, nonostante l’amicizia e gli accordi tra i due, conduce una politica estera del tutto autonoma, forse Mussolini potrebbe scegliere una strada diversa, facendo altrettanto; invece, pur avendo intuito la reale situazione (ma forse proprio per questo), ha comunque deciso di legare il proprio destino a quello del führer. Forse è questa la decisione con cui Mussolini determina drammaticamente la sorte, non solo sua personale, ma dell’Italia tutta: pur di realizzare il suo sogno di dominio nel Mediterraneo, si aggrappa al carro di Hitler, qualunque possano essere le conseguenze.
Ma bisogna porre l’accento, a questo punto, su un altro elemento della loro politica: il razzismo. Questo perché in un certo senso più autonoma appare la politica del duce sulla politica razziale, rispetto alla quale bisogna fare una discorso un po’ più preciso: contrariamente a quanto comunemente si crede, le leggi razziali non sono state imposte all’Italia da Hitler. Già con la guerra d’Africa, si è fatta strada in Mussolini l’idea che gli italiani abbiano, per così dire, fraternizzato un po’ troppo con gli africani, il che lo ha indotto a credere che ciò potrebbe in futuro minare la più genuina identità della nazione. Ma dimenticava un fatto fondamentale, e cioè che l’antico impero di Roma fu talmente multietnico, che non pochi imperatori furono anche africani. L’emanazione della legge del 1938 è dovuta alla convinzione che così sarà preservata quell’italianità, cui il duce ha sempre tenuto molto, rivelando in realtà un suo razzismo diverso e comunque autonomo rispetto a quello, estremo, teorizzato dal führer.
D’altra parte, aspetti del razzismo, che potrebbero sembrare di secondaria importanza, si possono individuare in alcune circostanze: ad esempio, non si possono ignorare certi provvedimenti decisamente vessatori che il fascismo adottò nei confronti delle minoranze linguistiche, nell’intento di preservare la purezza italiana anche dal punto di vista, appunto, della lingua. Allo scopo, si vietava che si pronunciassero alcune espressioni e alcuni termini presi in prestito da lingue straniere (cocktail diventò arlecchino, chaffeur diventò autista, ecc.). Da questo punto di vista, è utile ricordare che certo Franco Natali, membro dei fasci di combattimento bergamaschi, scrisse un piccolo volume dal titolo significativo Come si dice in italiano? Vocabolarietto autarchico. Il libro, del 1940, spiegava tra l’altro che l’autarchia, a parte i vantaggi per il commercio e l’industria, doveva essere intesa come una ben precisa mentalità (e si sa bene che una delle acquisizioni più significative della storiografia recente è proprio l’attenzione prestata alle mentalità, anch’esse fondamentali nel contribuire ai mutamenti della storia). Perciò, come si vede, quel particolare orgoglioso senso dell’italianità faceva parte di una più ampia visione del tutto compatibile con una sia pure poco appariscente forma di razzismo. Nessuna difficoltà quindi nell’emanare le leggi razziali.
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