di RITA TULELLI
Nell’intimità della casa, tra pareti che dovrebbero essere rifugio sicuro, molte donne vivono un incubo che non ha nome, o meglio, un incubo che troppo spesso non osa essere chiamato per ciò che è: violenza. È una violenza che non lascia lividi visibili, che non provoca urla strazianti udibili dai vicini, ma che scava in profondità, erodendo l’autostima, la dignità, l’identità stessa. È la violenza dolce, quel veleno lento che penetra nell’anima e fa sì che le vittime si sentano invisibili, annullate, prive di valore.
Quando si parla di violenza sulle donne, si tende a immaginare subito scene di aggressione fisica, lividi e ferite che raccontano senza parole la sofferenza inflitta. Ma esiste una forma di violenza altrettanto crudele, una violenza che si insinua nelle relazioni più intime, spesso difficile da riconoscere anche per chi ne è vittima: la violenza psicologica ed emotiva, il controllo sottile, la manipolazione quotidiana, che corrode dall'interno.
Anna (nome di fantasia), una donna sui trent’anni, racconta la sua storia con una voce pacata, che tradisce la lunga abitudine a soffocare il dolore. Il suo matrimonio all’inizio sembrava perfetto. Suo marito era premuroso, attento, innamorato. Ma con il tempo, piccoli segni hanno iniziato ad affiorare: una critica sussurrata, un commento apparentemente innocente sul suo aspetto fisico, sulla sua capacità di gestire la casa, sul modo in cui educava i figli. Queste parole, mai urlate, mai pronunciate con rabbia evidente, l'hanno lentamente intrappolata in una rete di insicurezze e paure.
"Non alzava mai la voce," racconta Anna, "ma mi faceva sentire inadeguata, come se ogni cosa che facessi non fosse mai abbastanza. Non mi permetteva di prendere decisioni, dovevo chiedere il suo permesso anche per uscire con le amiche o per comprare qualcosa per me stessa."
È questo il volto della violenza dolce. Una violenza che non ha bisogno di pugni per far male. Si serve di parole velate di disprezzo, di silenzi punitivi, di atteggiamenti che isolano la vittima dal mondo, rendendola sempre più dipendente e incapace di vedere una via d'uscita. È una strategia deliberata, subdola, che porta la donna a dubitare di sé stessa, a convincersi di non meritare di meglio, di non poter pretendere rispetto o amore autentico.
La violenza dolce si nutre del controllo. Controllo delle scelte, delle relazioni, delle emozioni. In molte storie, come quella di Marta, un’altra donna vittima di violenza psicologica, l’aggressore non usa minacce esplicite, ma strumenti più sottili. "Mi controllava senza che me ne accorgessi. Mi chiedeva continuamente dove andavo, con chi stavo parlando, perché avevo bisogno di uscire. Non era mai un divieto diretto, ma c'era sempre una sottile disapprovazione. Ho cominciato a isolarmi per evitare discussioni."
Il controllo economico è un altro aspetto che lega molte donne in relazioni tossiche. Spesso l'aggressore fa leva sull'indipendenza economica della vittima, impedendole di lavorare o tenendo sotto stretto controllo le finanze della famiglia. È una prigione silenziosa, dove ogni mossa è controllata e le possibilità di fuga sembrano ridursi sempre di più.
Le ferite della violenza psicologica non si vedono, ma sono profonde e difficili da guarire. Il senso di colpa, la vergogna, la paura di essere giudicate o di non essere credute, sono spesso i motivi che impediscono alle donne di denunciare. È una forma di violenza che la società fatica ancora a riconoscere e, spesso, le vittime stesse non riescono a darle un nome. Si colpevolizzano, si convincono che sia normale, che il partner stia solo cercando di "aiutarle" a migliorare.
Ma questa violenza dolce è letale quanto quella fisica. I danni alla psiche e all'autostima possono essere devastanti, portando a depressione, ansia, e in alcuni casi, a comportamenti autolesionisti. Alcune donne raccontano di aver perso completamente la propria identità, di essersi sentite annullate, come se non avessero più voce.
È fondamentale che la società impari a riconoscere questa forma di abuso, che le donne sappiano di non essere sole, e che ci siano risorse e reti di sostegno accessibili a chi vive questa realtà. Non si tratta solo di intervenire in caso di violenza fisica, ma anche di capire quanto possa essere distruttivo il controllo psicologico, il gaslighting, la manipolazione emotiva.
Le associazioni che si occupano di violenza domestica fanno un lavoro immenso, ma è necessario un cambiamento culturale che inizi dall’educazione, dalla prevenzione. Bisogna insegnare fin da giovani che l'amore non è possesso, che il rispetto è alla base di ogni relazione sana, e che nessuno ha il diritto di distruggere l’autostima di un’altra persona.
È giunto il momento di smettere di sottovalutare la violenza dolce, di darle il peso che merita. Troppe donne vivono nell'ombra, vittime di parole sussurrate che uccidono la loro anima giorno dopo giorno. Ogni donna merita di essere vista, ascoltata e amata per ciò che è, senza dover mai sentire il peso del disprezzo o del controllo di chi dovrebbe starle accanto.
Il cammino verso la libertà e la rinascita è difficile, ma possibile. Come cittadini, come esseri umani, abbiamo il dovere di non chiudere gli occhi di fronte a questo tipo di violenza, che non fa rumore, ma distrugge vite con la stessa intensità di un urlo soffocato.
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