Riceviamo e pubblichiamo il pensiero dell’Architetto Sabrina Barresi:
“Come spesso accade, vi è un errore di prospettiva nella lettura della situazione calabrese, ma nel 2025 parlare di “errore” rischia di essere solo un atto di ipocrisia.
Le attività commerciali chiudono, i locali si svuotano, e lungo le strade si crea un’atmosfera sospesa. Nei casi migliori, come accade in molte altre zone del nostro Paese e d’Europa, la diversificazione commerciale lascia spazio a un’unica attività di “democrazia sociale”: la ristorazione. Un caffè e un panino, alla portata di tutti. Ricordo un viaggio nel Nord Europa nella prima metà degli anni ’80, dove città e borghi medievali mi apparivano, senza distinzione, come un’unica grande “mangiatoia”. Perché sorprenderci se oggi questo fenomeno, con i suoi tempi più lenti, riguarda anche noi? È inevitabile.
Per il Mezzogiorno e in particolare per la Calabria, il fenomeno migratorio non è affatto una novità. A partire da sempre, sono stati sempre i giovani. La novità è che, dal 2014, secondo i dati ISTAT, la popolazione residente in Calabria comincia a calare in modo continuo e accelerato. Non si tratta più soltanto di una “perdita di giovani” compensata dalle nascite, ma di un saldo naturale negativo, con più morti che nati. Prima, l’alta natalità attenuava gli effetti dell’emigrazione; dopo il 2014, il crollo delle nascite e l’invecchiamento hanno reso lo spopolamento un fenomeno strutturale e visibile anno dopo anno.
Questa dinamica colpisce tutti i centri, piccoli e medio-grandi. Cosenza-Rende, Catanzaro e parte dell’area metropolitana di Reggio Calabria riescono a contenere meglio lo spopolamento rispetto ai piccoli comuni interni, grazie alla presenza di servizi di rango superiore: ospedali di secondo livello, aeroporti, porti commerciali, nodi autostradali, tribunali e corti d’appello, uffici regionali e provinciali, università, teatri stabili, musei e altro ancora. Tuttavia, in Calabria, come in gran parte del Sud, tutto ciò non basta a fermare lo spopolamento e l’invecchiamento.
Perché? Perché si tratta di funzioni urbane che non generano occupazione qualificata sufficiente. Sappiamo bene che molti servizi pubblici (ospedali, tribunali, università) mantengono personale, ma assumono poco di nuovo e spesso con contratti temporanei. L’università, per esempio, trattiene alcuni studenti durante il ciclo di studi, ma la maggior parte se ne va subito dopo la laurea per cercare lavoro altrove. L’economia locale resta debole e poco diversificata: i servizi da soli non creano un indotto tale da trattenere i giovani.
Se da un lato la presenza di questi servizi crea poli di riferimento regionali, dall’altro non riesce a invertire la dinamica demografica, perché non si accompagna a una base economica solida, a un mercato del lavoro attrattivo e a flussi migratori in entrata consistenti. Il risultato è che anche le “città” calabresi invecchiano e si svuotano, seppure un po’ più lentamente rispetto ai centri minori.Quello che accade nella nostra Calabria è sotto gli occhi di tutti: migrazione selettiva, con i giovani più qualificati che partono, lasciando in città una quota crescente di anziani e popolazione a basso reddito. C’è una polarizzazione interna senza crescita netta: anche se i centri maggiori attraggono popolazione dalle aree interne, generano un saldo positivo solo rispetto ai piccoli comuni circostanti, mentre restano negativi rispetto al resto d’Italia e all’estero.
Di fatto, la popolazione totale continua a calare. Inoltre, molti servizi di rango superiore sono a rischio o sottoutilizzati, spesso non pienamente sviluppati o afflitti da carenze di personale e strutture, riducendo così l’attrattività reale. In sostanza, lo spopolamento non è un destino naturale, ma la conseguenza di scelte – o non- scelte – precise. Rassegnarsi significa accettare la lenta scomparsa della propria terra. Interi paesi in Calabria potrebbero scomparire entro una generazione. La radice del problema non è solo la mancanza di lavoro, ma la mancanza di prospettiva.
Eppure siamo ormai al punto di rottura. Continuando così, tra vent’anni in Calabria ci saranno meno di 1,7 milioni di abitanti, con metà della popolazione sopra i 55 anni. Ci saranno più case vuote che famiglie, più cimiteri che scuole. Se non invertiamo la rotta, il paesaggio resterà, ma la vita vera si spegnerà.
È necessaria una forte e sentita chiamata all’azione, in grado di pretendere sviluppo: investire nelle filiere produttive locali, nel turismo di qualità, in un’agroalimentare evoluta, nelle energie rinnovabili, e non solo in eventi spot o cantieri eterni. Riprendersi il diritto di decidere del proprio futuro significa partecipare, vigilare, non piegarsi.
Il problema non è solo la mancanza di risorse o infrastrutture, ma la mancanza di coraggio e visione. Abbiamo assistito a politiche che hanno solo amministrato il declino, che hanno chiesto elemosine invece di costruire qualcosa di solido.
La Calabria oggi ha bisogno di chi osa cambiare”.
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