
di RITA TULELLI
Le baby gang rappresentano uno dei fenomeni più complessi e controversi della cronaca sociale italiana. Spesso etichettati come gruppi di adolescenti violenti, questi ragazzi, prevalentemente tra i 15 e i 17 anni, si rendono protagonisti di microcriminalità, vandalismo e aggressioni. Dietro l’apparente ribellione, però, si celano dinamiche profonde legate al disagio sociale, alla mancanza di modelli educativi e alla ricerca di un’identità in un contesto difficile. Secondo Transcrime, le baby gang sono gruppi informali senza una struttura organizzata che compiono azioni violente più come espressione di malessere e marginalità che per una reale volontà criminale. In molti casi, infatti, questi comportamenti nascono dal senso di esclusione sociale e dall’assenza di punti di riferimento stabili all’interno della famiglia o della scuola. Spesso i ragazzi provengono da contesti familiari disfunzionali o da situazioni di povertà economica e sociale, circostanze che alimentano il sentimento di isolamento e favoriscono l’aggregazione in gruppi giovanili con scopi di riconoscimento e appartenenza. Un altro fattore determinante è la carenza di modelli educativi. L’assenza di figure adulte stabili e di riferimenti positivi nella crescita dell’adolescente favorisce comportamenti devianti come forma di reazione al vuoto educativo. I social media amplificano ulteriormente il fenomeno: da un lato consentono visibilità e approvazione sociale, dall’altro contribuiscono a creare una cultura del gesto spettacolare e della trasgressione ostentata, fenomeni che spesso si traducono in episodi di violenza e prevaricazione.
Le periferie urbane giocano un ruolo centrale nella nascita delle baby gang. Spazi caratterizzati da degrado, scarsità di opportunità culturali e abbandono diventano luoghi naturali di aggregazione per i giovani in cerca di identità e riconoscimento. In questi contesti, l’assenza di alternative positive favorisce la nascita di gruppi che inizialmente informali possono evolversi in bande strutturate.
La risposta istituzionale ha cercato di fronteggiare il problema con interventi legislativi come il Decreto Caivano, introdotto nel settembre 2023. La normativa prevede strumenti di contrasto alla criminalità giovanile e all’abbandono scolastico, tra cui la possibilità di convocare minorenni da parte del Questore e ammonire i genitori per la mancanza di controllo sui figli. Tuttavia, il rischio è che la visibilità mediatica e il panico morale che spesso accompagnano gli episodi di baby gang contribuiscano a costruire un’immagine distorta e semplificata del fenomeno, ignorando la complessità delle dinamiche sociali sottostanti.
Per affrontare realmente il fenomeno, la prevenzione non può limitarsi a interventi repressivi. Sono necessarie politiche di inclusione sociale che offrano alternative positive ai giovani, spazi di crescita culturale e ricreativa e un rafforzamento del ruolo educativo della famiglia e della scuola. L’educazione emotiva, l’accesso alla cultura e allo sport costituiscono strumenti fondamentali per trasformare il disagio giovanile in opportunità di crescita. Le baby gang, in definitiva, rappresentano un campanello d’allarme per la società. Dietro la violenza e la ribellione si celano storie di solitudine, frustrazione e ricerca di identità. Solo attraverso un impegno collettivo che coinvolga istituzioni, famiglie e comunità sarà possibile contenere il fenomeno e offrire ai giovani percorsi alternativi di sviluppo, trasformando il disagio in risorsa e cambiamento positivo.
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