Prosegue la querelle sul convegno sulla seta a Cosenza. Questi i due precedenti interventi (LEGGI QUI) e (LEGGI QUI). Di seguito ospitiamo l'intervento di Stefania Frustaci.
"Il Dott. Matteo Olivieri ha inteso replicare sulla stampa ad una mia nota di analisi su quanto affermato in un incontro, tenutosi a Cosenza, nel corso del quale è stata sottolineata la grandezza della seta nella città bruzia. Le parole utilizzate dall’Olivieri, ma soprattutto i toni, decisamente sopra le righe, meritano una controreplica, a titolo personale e per conto delle numerose Associazioni catanzaresi che hanno inteso condividere il mio precedente scritto.
Innanzitutto voglio rassicurare il dott. Olivieri che ben comprendo che la serata di approfondimento - peraltro da collocare nella dichiarata necessità di corroborare la candidatura della città bruzia a Capitale italiana della Cultura per il 2026 e perciò incline alla propaganda - incentrata su una materia così vasta, complessa e dalle mille sfaccettature quale è la storia della seta, in generale, e l’analisi di tutto il processo di produzione e lavorazione, possa avere indotto a sorvolare su alcuni dettagli. Con altrettanta sincerità voglio evidenziare, tuttavia, che alcune “omissioni” non sono proprio dettagli perché dall’ascolto, e riascolto, di tutto l’intervento del dott. Olivieri ben difficilmente si poteva intendere che si parlasse solamente di seta grezza di Cosenza e dei suoi casali, ossia delle sole fasi che comprendono la gelsicoltura, la bachicoltura e la trattura, e che l’enfasi posta sulla commercializzazione fosse riferita esclusivamente alla sola seta grezza.
La replica del dott. Olivieri, piccata a tal punto da lasciare capire che si sia sentito offeso dalla mia precedente nota, dimostra come l’economista cosentino non abbia saputo interpretare il mio intento, che era di fare chiarezza e di sgombrare il campo da possibili errate interpretazioni e di riportare nell’alveo della correttezza storica il messaggio che si voleva lanciare nell’incontro di Cosenza.
Sì, perché un ascoltatore non “ferrato” nella specifica materia, avrebbe potuto farsi fuorviare – e come dargli torto – dalle parole del dott. Olivieri, secondo cui “nel periodo del Rinascimento e all’inizio dell’età moderna la città di Cosenza divenne il punto privilegiato di produzione e di commercio della seta nel Regno di Napoli”, e ancora che esisteva un “marchio seta di Cosenza [che] nasce come un marchio fiscale […] che ben presto questo marchio divenne un marchio di origine di Cosenza e i suoi casali e poi, da marchio di origine, è diventato un marchio di qualità” e che “i banchieri operanti a Cosenza volevano acquistare seta di Cosenza e poi chiedevano la seta di licatura, cioè la seta che si acquistava espressamente nella zona di Catanzaro. Non sappiamo ancora perché avesse questo nome licatura; però la seta di Catanzaro era giudicata di qualità ancora migliore rispetto a quella di Cosenza ma era difficilissima da trovare”.
E allora, nella mente dell’ipotetico ascoltatore sprovveduto di cui prima, sono sicura che si sarebbero materializzate immagini di bozzoli, matasse, telai e tessuti, tanti tessuti in seta, velluti, damaschi, broccati, a tonnellate e tutti indistintamente di Cosenza e protetti da un marchio di qualità.
Era un messaggio che non potevo lasciare passare. Non solo perché me lo imponeva la mia specifica competenza in quanto storica del costume ed esperta di taglio storico e tessile, ma me lo chiedeva la mia catanzaresità.
Ecco, dott. Olivieri, il mio scopo era di chiarire che nell’incontro di Cosenza si è dibattuto esclusivamente di seta grezza; che il cosiddetto marchio di qualità era riferito alla materia prima – anche se mi riesce difficile capire come mai i banchieri amassero commerciare la seta grezza di Cosenza munita di marchio di qualità, salvo poi andare alla ricerca della seta licatura della zona di Catanzaro che, invece era di qualità superiore ed introvabile e le garantisco che era la più cara in assoluto; che le enormi quantità commercializzate dalle famiglie di banchieri che operavano a Cosenza riguardavano esclusivamente la seta grezza; che questa seta non veniva tessuta a Cosenza bensì prendeva la strada di altre città per essere lavorata; che la seta grezza licatura di elevata qualità risultava introvabile in quanto veniva utilizzata per le manifatture seriche catanzaresi, queste sì munite di marchio di qualità (l’impronta del sigillo dei Consoli dell’Arte della Seta è conservato alla Camera di Commercio di Catanzaro), dalla bachicoltura alla tessitura, perché rispondenti alle rigide norme di produzione dettate nei “Capitoli Ordinazioni e Statuti dell’Arte della Seta di Catanzaro”, concessi da Carlo V nel 1519, successivi a quelli di Napoli del 1477 e precedenti a quelli di Firenze di circa mezzo secolo.
Sono sicura, dott. Olivieri, che questo ultimo pacato chiarimento le consentirà di leggere sotto una luce diversa le mie precedenti parole. E poi, debbo comunicarle con piacere che nell’incontro di Cosenza ho potuto apprendere, finalmente, che la relatrice di Catanzaro è dichiaratamente una esperta di seta grezza e che, pertanto, le sue improvvide dichiarazioni contrarie all’istituzione di un museo della seta a Catanzaro, perché secondo lei non c’è traccia di tessuti catanzaresi, hanno lo stesso valore dell’aria fritta.
Ma questi sono altri argomenti che mi auguro di poter discutere serenamente con lei. Non mancheranno le occasioni".
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